Lavorare nell’editoria: il caso Ichino e l’arte di “fare i nomi”
Editoriale – Il portale online “Huffington Post Italia” ha pubblicizzato ieri le esternazioni di Chiara Di Domenico, addetta stampa presso una casa editrice romana, intervenuta durante un seminario organizzato dal Partito Democratico dal titolo “Le parole dell’Italia giusta“, alla presenza del candidato premier del centrosinistra Pier Luigi Bersani. Di Domenico è intervenuta a nome dei precari dell’editoria, suscitando convinti applausi e sfogando la sua rabbia contro “lo status quo osceno”: “Io mi sono stufata di vedere mogli di, figli di, fratelli di nei posti migliori. Io faccio nomi e cognomi: Giulia Ichino a 23 anni , è stata assunta come editor della Mondadori. Della più grande casa editrice italiana, a soli 23 anni, mentre un mio amico, giornalista precario per un quotidiano di sinistra, resterà precario chissà fino a quando”. L’accusa della Di Domenico, che si è guadagnata per le sue parole un abbraccio di Bersani, è rimbalzata ieri dall’Huffington Post su tutti i social network. L’autore dell’articolo ha omesso alcuni dati importanti necessari per una completezza dell’informazione, omessi a dirla tutta, in primis dall’autrice dell’intervento: l’assunzione denunciata da Chiara Di Domenico è infatti avvenuta nel 2002, quindi 11 anni fa. Impossibile non riconoscere quanto tale assunzione avrebbe suscitato un maggior scalpore se fosse avvenuta oggi, nel momento in cui, come ha denunciato più volte la Rete redattori Precari, Mondadori e altri gruppi editoriali si preparano all’esternalizzazione di centinaia di lavoratori editoriali. Informazioni e dettagli più completi sono stati invece riportati, a fine giornata, sia dalla stessa Giulia Ichino nel suo profilo Facebook, sia dalla Mondadori in persona, intervenuta con un comunicato stampa a difesa della sua dipendente. “In relazione a quanto riportato dalle agenzie di stampa e circolato sui social network in merito al percorso professionale di Giulia Ichino, Mondadori sottolinea che l’unico criterio che da sempre guida l’inserimento di risorse umane in azienda è la qualità professionale, a prescindere da ogni altro elemento. Giulia Ichino, 34 anni, 1 figlio, è responsabile della narrativa italiana delle edizioni Mondadori dal 2010 e si occupa di tutte le collane di novità nell’ambito della fiction italiana. Assunta in Mondadori nel 2002 come redattore, Giulia Ichino è oggi stimata professionista del panorama editoriale italiano; ha lavorato e lavora con decine di autori, da Giuseppe Pontiggia a Margaret Mazzantini, Andrea Camilleri, Roberto Saviano, Paolo Giordano, Niccolò Ammaniti, Alessandro Piperno, Carmine Abate, Chiara Gamberale, Daria Bignardi, Mauro Corona, Valerio Massimo Manfredi e tanti altri.”
Al di là di ogni considerazione di cui è pieno il web sullo specifico nome (Giulia Ichino è figlia di Pietro Ichino, già esperto di tematiche del lavoro nelle fila del Partito Democratico e oggi candidato con la lista Monti), l’affermazione più densa di significato dell’intervento di Chiara Di Domenico è un’altra, ed è proprio quella precedente. “Io faccio nomi e cognomi“. La rottura del velo del silenzio e dell’anonimato è una dichiarazione di battaglia che riscuote applausi in quanto tale, poco importa che si faccia il nome sbagliato al momento sbagliato (cioè citando con 12 anni di ritardo il nome di una persona, per di più trovato su Google, sulla cui vicenda non si possiede la minima documentazione). Sbagliato, ovviamente, da un punto di vista dell’informazione corretta e responsabile, non necessariamente da quello di una campagna elettorale che si svolge in pieno periodo carnevalesco.
Perché è così difficile fare nomi e cognomi? “Semplicemente per la paura di perdere quel poco che si ha”, dichiara a Bibliocartina Federico Di Vita, autore per TIC Edizioni di “Pazzi scatenati”, un libro inchiesta sulle condizioni di lavoro nel mondo editoriale “in cui le denunce sono quasi sempre anonime; innanzitutto è anonimo il lavoratore che denuncia, ma anche i nomi delle case editrici escono fuori solo quando ormail il rapporto di lavoro è terminato. D’altra parte come biasimarli? Quando si lavora con un contratto precario da 600/700 euro, si ha paura di perdere il lavoro per effetto di una denuncia, sia essa a mezzo stampa o alle autorità giudiziarie. Tanto più nel nostro settore, privo di un sindacato e per nulla regolamentato per quanto riguarda la verifica del rispetto delle regole, denunciare significa esporsi, rischiare in prima persona. Persino a me, come racconto nel libro, scrivere “Pazzi scatenati” è costato il posto di lavoro”. Un sistema dunque talmente tanto basato sull’omertà e sull’acquiescenza “pur di lavorare nell’editoria” che “denunciarne uno vuol dire denunciarli tutti, visto quanto è sistematico lo sfruttamento malpagato e l’utilizzo di contratti capestro in questo settore”. Con il risultato che chi concorre sullo stesso mercato rispettando le regole, dunque in questo caso dotandosi di una forza lavoro regolarmente assunta, si ritiene svantaggiato, come ha denunciato qualche tempo fa l’editore di Charta Art Books Giuseppe Liverani in un’intervista a Bibliocartina.
Quando non è il posto di lavoro che si rischia, perché magari si lavora da freelance con una serie di clienti, l’altro freno serio alla denuncia dei soprusi (mancati pagamenti, ritardi incalcolati, utilizzo di doppi contratti ecc.), è la paura di una causa per diffamazione, reato penale secondo il codice italiano. In un articolo per la rivista del Sindacato dei Traduttori editoriali STRADE intitolato “Quando l’editore non paga” Federica Aceto lo dice chiaramente: “i nomi circolano, li conosciamo. Eppure non possiamo farli pubblicamente perché rischieremmo di essere citati in giudizio per diffamazione a mezzo stampa”. L’affermazione dà a intendere che qualunque forma di pubblicazione dei nomi di un editore insolvente (o di altro tipo di figura professionale che abbia commesso scorrettezze) possa costare una denuncia per diffamazione. In che misura è così? La Corte di Cassazione ha stabilito nel 2007, attraverso una serie di sentenze, che “il diritto di cronaca può essere esercitato, quando ne possa derivare lesione all’altrui reputazione, prestigio o decoro, soltanto qualora vengano dal cronista rispettate le seguenti condizioni: a) che la notizie pubblicata sia vera; b) che esista un interesse pubblico alla conoscenza dei fatti riferiti in relazione alla loro attualità ed utilità sociale; c) che l’informazione venga mantenuta nei giusti limiti della più serena obbiettività”. Raccontare che un editore non paga su un giornale o su un blog – e non su una lista privata o in una conversazione fra colleghi – è permesso dalla legge, dunque, senza che si configuri alcun reato di diffamazione, posto che l’affermazione sia vera, che la sua veridicità sia stata verificata dal giornalista, che la notizia sia di interesse pubblico (ad esempio l’interesse di evitare ad altri colleghi di lavorare senza essere pagati) e che venga riportata in modo non offensivo.
In sintesi: per denunciare un mancato pagamento, un contratto irregolare o altro tipo di sfruttamento da parte di un editore è molto meglio affidarsi a un giornalista che sappia fare il suo mestiere, che sfogarsi tra colleghi su un forum o anche semplicemente su un blog. Da un punto di vista strettamente legale la seconda ipotesi rischia di costare ben più cara della prima. E allora perché tuttora, il parlottìo fra colleghi del tipo “nell’ambiente tutti sanno” è di gran lunga preferito alla denuncia pubblica delle scorrettezze? Perché ci si lancia in sfoghi non documentati e in sostanza scorretti, come quello di Chiara Di Domenico, piuttosto che affidarsi alle proprie ragioni e agli strumenti che si hanno a disposizione per risolvere una situazione che legittimamente genera tanta frustrazione presso migliaia e migliaia di professionisti?
Alcune risposte possibili sono di carattere culturale. Tuttora valida, per esempio, è una considerazione fornita dalla Rete dei redattori precari in un’intervista a Bibliocartina qualche mese fa: riconoscere che si vive una condizione di sfruttamento, e che nonostante tanto impegno, tanti titoli di studio e la fede nella gavetta, si è diventati preda di una ricattabilità e di una dipendenza dal datore di lavoro psicologicamente pari a quella di chi svolge lavori ben più umili o pericolosi, è dura. Richiede un grande sforzo di umiltà e di autocoscienza. “Fino a non molto tempo fa, e forse tuttora, moltissimi lavoratori di questo settore storcevano proprio il naso e non accettavano di definirsi tali [precari, ndr]. Perché in questa definizione ci passa tutta la differenza tra lavoro figo e lavoro sfigato, non so se mi spiego”, dichiarava un’attivista di Re.re.pre nell’intervista. E dunque, passi scoprire le carte fra i colleghi, ma il mondo, quello è meglio che non sappia. Proprio come gli immigrati raramente raccontano a casa i soprusi razzisti di cui sono fatti oggetto in questo paese, per non apparire dei falliti, così i lavoratori spesso occultano quella realtà “marcia” (per usare le parole di Liverani) dell’editoria scoperta dopo aver grattato la patina d’argento. Anche per questo motivo le Università e i corsi privati ormai diffusi ovunque continuano a sfornare manodopera.
Un’altra risposta, a sua volta di carattere culturale, ha a che fare con la crescente disinformazione: da una parte la crescita a dismisura di luoghi online in cui si scrive di sé, dai blog, ai social media, ai forum, alle liste; dall’altra, e in primo luogo, un generale declino del lavoro giornalistico di qualità, stanno facendo dimenticare ai più il significato pregnante e specifico di alcuni termini fondamentali: notizia, cronaca, critica, informazione, verifica. “Fare i nomi” in sé e per sé (così come non farli) non è sinonimo di buona informazione. Può diventare addirittura controproducente rispetto agli scopi che ci si prefiggeva o rispetto a una buona causa. Provare a raccontare e far raccontare la verità dei fatti ritenuti di interesse comune, senza prendere di mira nessuno nella propria persona e senza inseguire facili sensazionalismi ma cercando tenacemente le verità utili, questo sì, è un compito, urgente, del buon giornalismo.
Firmato dalla Redazione
Tags: Charta, Chiara Di Domenico, Federico Di Vita, Giulia Ichino, Giuseppe Liverani, lavorare nell'editoria, Mondadori, Partito Democratico, precariato, Re.Re.Pre.
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Commenti (10)
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Marco Meneghello
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«Raccontare che un editore non paga su un giornale o su un blog – e non su una lista privata o in una conversazione fra colleghi – è permesso dalla legge, dunque, senza che si configuri alcun reato di diffamazione, posto che l’affermazione sia vera, che la sua veridicità sia stata verificata dal giornalista, che la notizia sia di interesse pubblico (ad esempio l’interesse di evitare ad altri colleghi di lavorare senza essere pagati) e che venga riportata in modo non offensivo.»
È vero quanto scrivete, ma il problema vero non è di certo questo. Non è il procedimento penale a impensierire davvero, ma quello civile, dove non si chiede l’applicazione di una pena, ma il risarcimento di un danno. E si possono chiedere soldi, tanti soldi. E non importa se siano troppi.
Cosa può fare, dunque, una persona di fronte alla prospettiva di affrontare una causa per risarcimento danni da diffamazione nella quale si chiedono 5, 10, 20, 50 o anche 100 mila euro di risarcimento come se niente fosse.
Avrà anche ragione, ma intanto il processo si deve affrontare, con tutto quel che riguarda in termini di spese e di rischio.
Lo può fare serenamente solo chi non ha nulla da perdere, ma gli altri rischiano di soccombere alla sola richiesta.
E allora ecco che il “non fare i nomi” diventa forse più comprensibile.
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Redazione
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Grazie di questo commento. In base alle nostre ricerche la Cassazione ha emesso la stessa sentenza in sede sia penale sia civile. Stando alla legge quindi non si configura reato in nessuno dei due casi, se vengono rispettate tali clausole ovvero se si usa la stampa, mentre altro discorso è la diffamazione tramite passaparola o chiacchiericcio, che è poi paradossalmente proprio quella cui non rinuncia nessuno. Ma leggo ora che sei un avvocato, senz’altro potrai confermare o smentire questo assunto. Il processo si deve affrontare, è vero. Il punto in ogni caso è che non c’è verso, lo sappiamo bene, di smascherare un’ingiustizia se non andando incontro a dei rischi. Qualunque associazione o sindacato dovrebbe prevedere un servizio di tutela legale per i suoi iscritti, possibilmente da parte di avvocati solidali disposti a lavorare gratis e ce ne sono tantissimi, proprio per andare incontro a questo.
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Francesca
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Grazie. Molto bello. Lo condivido in pieno. E sottolineo l’importanza – e la gravità – dell’ultimo paragrafo, sulla qualità del giornalismo e la disinformazione.
Peraltro, nel merito della faccenda Mondadori, non ho visto particolari approfondimenti su quanti e quanto famosi siano stati gli assunti nell’ultimo decennio. Notizia non secondaria nel caso specifico per dare un peso e un valore reale all’accusa. Come dici tu, ormai basta buttare lì un nome, lanciare un’accusa e il lavoro è fatto.
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Redazione
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Purtroppo ovunque stanno dilagando commenti e riflessioni che vanno in tutt’altra direzione. C’è da preoccuparsi seriamente, se i precari credono che questo sia il modo migliore per lottare.
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Chiara
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Questo articolo, oltre ad essere di parte, è ancora meno preciso di quello postato su Scrittori in causa, in cui addirittura aveva commentato un avvocato precisando alcuni elementi tralasciati dalla trattazione, che tuttavia non sono stati poi inseriti nell’articolo.
Mancano punti fondamentali già chiariti dalla Cassazione, che non si possono certo tralasciare, per esempio la questione fondamentale sulla rilevanza del blog:un piccolo blog poco frequentato non raggiunge i requisiti formali per essere considerato “di pubblica utilità”, e quindi la scriminante della verità non può essere invocata. Lo stesso dicasi del termine “cronista”, che non si può riferire a chiunque.
Queste precisazioni cambiano tutto, e i due articoli, se non integrati, rischiano di creare solo danni e fare disinformazione.
Per favore, lasciate la materia agli operatori del settore, perché il diritto è molto più complesso di quanto possa sembrarvi e il codice coordinato con leggi di vario rango (anche UE, o costituzionali) oltre che con le sentenze sui singoli argomenti, cosa impossibile da fare senza avere, per esempio, accesso ai database tipo Dejure.
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Redazione
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Gentile Chiara, lei dice che l’articolo è di parte: a quale parte sta facendo riferimento? Sarebbe il caso di spiegarsi ed evitare qualunque stramba insinuazione, visto che ci tiene tanto alla correttezza dell’informazione. Secondo: ci sembra abbastanza cristallino nell’articolo che consigliamo di fare riferimento ai giornalisti professionisti e ai giornali quando si tratta di denunciare malefatte varie, dunque direi che la sua seconda critica decade in toto. Diciamo infatti: “per denunciare un mancato pagamento, un contratto irregolare o altro tipo di sfruttamento da parte di un editore è molto meglio affidarsi a un giornalista che sappia fare il suo mestiere, che sfogarsi tra colleghi su un forum o anche semplicemente su un blog”. Le sembra poco chiaro? Terzo: sarebbe stato, con tutto il rispetto, molto più utile se lei avesse integrato l’articolo con i punti di cui parla e i riferimenti giuridici. L’informazione si può fare anche cooperando, piuttosto che invocando l’accesso segreto a qualche database. Non mettiamo in dubbio che il diritto sia complesso, ma il punto è proprio questo: visto che poi a vivere, e in questo caso a scrivere, sono le persone comuni, è doveroso renderlo comprensibile ai più. Con le nostre limitazioni noi ci abbiamo provato e non abbiamo scritto cose false, lei stessa ce lo conferma. Che possano essere integrate e precisate, non lo mettiamo in dubbio: se vorrà integrare questo articolo con delle precisazioni (non essendosi lei presentata, ci tocca presumere che sia un’esperta del tema) saremo ben lieti di ospitare un suo intervento.
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Redazione
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Fra le altre cose signora Chiara, rileggendo nuovamente il suo commento troviamo abbastanza strano, e ci farebbe piacere un suo chiarimento su questo, che lei parli di ‘due articoli’ riferendosi a questo e a un articolo recentemente comparso su Scrittorincausa come se fossero la stessa cosa, quando sono stati scritti a mesi di distanza, e trattano di episodi di cronaca del tutto diversi e non assimilabili. Non le sembra un po’ poco serio metterli nello stesso generico calderone senza fare distinzioni? Saluti, la redazione.
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carlo
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in ogni caso che sia giulia ichino o un’altra, sono tutto molto “paraculati” nelle case editrici, anche i precari son quasi tutti figli di papà, quelli che lavorano sul serio invece sono i figli dei proletari. Idem per gli scrittori. Vi siete mai chiesti perchè il mercato editoriale è in crisi? Perchè gente che lavora nell’editoria e scrittori sono presi dalle stesse famiglie “bene”. Potremmo citare centinaia di casi… E per la maggior parte incapaci di scrivere ma scelti da gente altrettanto incapace. Il tutto per autocompiacimento, bloccando però il lavoro a persone che meritano davvero. Questa è l’Italia!
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