Masterpiece: il talent show della narrativa che fa solo finta di esserlo
Domenica 17 novembre è andata in onda su Rai3 la prima puntata di Masterpiece, il primo talent show del mondo con la narrativa protagonista. Lo spettacolo, prodotto da Rai3 in collaborazione con Fremantle Media, ha suscitato reazioni per lo più sdegnate o derisorie fra i professionisti del mondo editoriale e non solo.
Piazzato nella seconda serata di Rai3 dopo il TG, per il momento Masterpiece ha conquistato il 5,14% di share ed è stato visto da 689mila spettatori. Un risultato non disastroso per un programma evidentemente minore. Il format è all’apparenza simile, in effetti, a quello di tantissimi altri talent: grande partecipazione iniziale (circa 5.000 persone hanno inviato il proprio manoscritto nei mesi precedenti), prima selezione feroce con riduzione dei concorrenti a 72, ma alla fine del programma ne rimarrà solo uno: il romanzo vincitore sarà pubblicato da Bompiani e tirato in 100mila copie. Sarà anche allegato al Corriere della Sera, parte come Bompiani del gruppo RCS, insieme a Rizzoli Libri e a numerose altre riviste e sigle editoriali (sappiate dunque che qualunque iniziativa o critica contenuta sul Corriere della Sera e altre riviste o giornali del gruppo RCS relativa a Masterpiece è a tutti gli effetti classificabile come propaganda e pubblicità; o se preferite, conflitto d’interessi).
Un altro elemento simile ai classici format del genere è la giuria, ovviamente. Giancarlo De Cataldo (noto ai più per la fortunatissima serie Romanzo Criminale, portata in auge in verità non tanto dal libro quanto dal film e dalla serie TV Sky successiva); Andrea De Carlo, autore navigato di cui tutti probabilmente abbiamo letto almeno un libro in adolescenza (chi scrive ricorda UTO, soprattutto per l’ambientazione nella provincia americana), e infine Taiye Selasi, autrice afroanglosassone (afropolitan, direbbe lei, ma la definizione puzza troppo di brand) che da pochissimo ha esordito sul mercato italiano con il romanzo “La bellezza delle cose fragili” pubblicato da Einaudi nella traduzione di Federica Aceto. Taiye Selasi, fra i tre senza dubbio la giudice più armata di personalità, vive da qualche tempo in Italia però non scrive in italiano, lo parla in modo comprensibile ma con evidenti cadute di conoscenza (nel corso della trasmissione ha chiesto aiuto a De Carlo perché non sapeva come si dice “nascondersi” in italiano). E su questo aspetto ci siamo, a essere sinceri, interrogati: Taiye Selasi conosce abbastanza bene l’italiano per cogliere le sfumature della scrittura in questa lingua? Se tutti scrivono come i primi che abbiamo visto, direbbe il commentatore medio di Twitter, basterebbe un qualsiasi diplomato alle medie. Tuttavia gli interrogativi sui perché di questa scelta rimangono. Forse per svecchiare la cattedra? Forse per attirare il pubblico da Rai3 più facile, una certa fascia d’utenti radical-chic che non disdegnano la bellezza e amano sentirsi cosmopoliti nel loro provincialismo? O forse per dare respiro internazionale alla competizione? Una specie di “la Mika di Masterpiece”, quindi, o una Joe Bastianich ben più simpatica? Sarebbe, quest’ultima, la spiegazione più banale. Quindi la più probabile.
In effetti l’altro grande elemento che rende Masterpiece in tutto e per tutto simile agli altri Talent è l’abuso di ogni tipo di cliché del genere: il bancone gigante, le luci, i primi piani, il dentro-fuori, il “per me è un sì”, “per me è un no”, la colonna sonora di totale ovvietà (la musica in sottofondo con gli scrittori in attesa di giudizio era la stessa già sentita mille volte a X Factor), il giudice cattivo – De Carlo – che strappa il manoscritto (cliché nel cliché, letterario e televisivo), il coach buono (Massimo Coppola, il volto più accattivante fra tutti quelli della prima puntata), eccetera eccetera. E non parliamo neanche del nome: appena lo inizi a pronunciare ti appare Gordon Ramsay con la padella in mano, è quasi automatico.
Per il resto, a Masterpiece del talent show mancano due cose: i talenti e lo show. A Masterpiece non si è mai, neanche una volta, pronunciata la benedetta frase “cerchiamo un talento”, quella che aizza da anni a questa parte le speranze di giovani aspiranti cantanti, ballerini e anche scrittori, visto in quanti hanno inviato la loro opera. La frase che stimola la curiosità degli spettatori, perché in Italia si sa, siamo un popolo di allenatori e non soltanto nel calcio, ma in qualsiasi cosa. Compreso di allenatori di scrittori di libri che poi non leggiamo. Il problema di Masterpiece però, non è solo che del talento effettivo dei concorrenti per ora sappiamo poco e niente, visto che di ciascun libro ci è stata letta una pagina a malapena. Il problema è il format stesso dello show, a nostro parere falsato e compromesso, fin dall’inizio, dal fatto che i giudici, al contrario del pubblico, hanno letto in precedenza l’intero romanzo dei concorrenti. I giudici conoscono già il prodotto finito, già sanno cosa verrà fuori alla fine del programma: il romanzo c’è, si tratta di decidere se pubblicarlo o meno con Bompiani, per tutti gli altri c’è comunque Amazon. Certo andrà lavorato, andrà migliorato. Ma cos’è allora Masterpiece, un programma sull’editing? E c’era davvero bisogno di chiamare talent show un programma su come si sceglie a quale romanzo fare l’editing?
Se l’intento della trasmissione è, come ci si aspetterebbe, svelare al pubblico nuovi talenti della narrativa, se coaching di talenti deve essere, allora forse più che lavorare per la durata di un intero programma con i romazi nel cassetto sarebbe stato interessante misurare il talento nella scrittura creando un percorso ad hoc. Un percorso per dimostrare che si sa scrivere e magari anche che si sa leggere, un percorso in cui gli spettatori stessi potessero cimentarsi, non solo i concorrenti, con la lettura dei pezzi dei protagonisti ma perché no, anche di classici d’ispirazione ecc. Non solo, quindi, esperienze da vivere per estrapolarne un testo sul momento (con risultati, come si è visto nella puntata, di sconcertante banalità). Magari interattivo e social. Un percorso alla fine del quale solo i più bravi avrebbero dimostrato la capacità e avuto la possibilità di scrivere un romanzo nuovo, o di lavorare sul proprio antico sogno nel cassetto, e addirittura di farselo pubblicare. Così com’è, da un punto di vista della scoperta dei talenti il format appare recitato. Se i giudici, compresa come dichiarato da lei stessa la super-giudice Elisabetta Sgarbi direttrice editoriale di Bompiani hanno già letto i romanzi dei concorrenti prima ancora di incontrarli, il percorso di ‘scoperta’ del talento è allora inesistente, peggio ancora finto; dunque poco interessante, per tutti e in primo luogo per gli stessi giudici. Anche perché se è vero che lo scrittore, specie in quest’epoca, può diventare star, il libro in ogni caso non è uno show. Il talento lo è. Generalizzando in modo un po’ arbitrario potremmo quasi dire che l’editoria con Masterpiece ha dimostrato ciò che da tempo sapevamo: che come industria non è in grado di gestire i suoi talenti. Li separa dalle loro opere per fare di loro stessi dei personaggi e così li appiana, li spreme e li photoshoppa trasformandoli in casi umani o in starlette della parola. Anche da questo punto di vista Masterpiece ha regalato diverse scene patetiche; quasi tutte, spiace dirlo, dovute alla Seyasi, quella che più ha provato a invadere l’intimo dei concorrenti con risultati imbarazzanti e anche un po’ nauseanti: dal carcerato che prova a trasformare un crimine in poesia pur di non confessarlo, alla giovane ex anoressica in lacrime perché “mi hai veramente deluso”, dopo che poco prima la giudice si era dimostrata così empatica e amorevole con la sua malattia. Robe che di solito associamo a Maria De Filippi.
Oltre a tutto questo, l’altro motivo per cui Masterpiece non è, non può essere e non sarà un talent show è che uno spettacolo presuppone un pubblico che applauda o fischi. Ed eccoci alla più grande, assoluta, assordante assenza di Masterpiece: il pubblico. Che fine ha fatto il pubblico? Senza pubblico la cattedra dei giurati diventa la commissione d’esame alla maturità. “Il suo tema era da 6 e mezzo, bocciato, promosso, grazie, ci vediamo l’anno prossimo”. Senza pubblico non esiste più Masterpiece come talent show, assistiamo a una specie di “Non è mai troppo tardi” della fiction. Non occorre essere navigati autori televisivi per sapere che il pubblico è parte integrante della costruzione di un talento, basta aver visto qualche volta X Factor: è il “quinto giudice” di Alessandro Cattelan, quello che pur ignaro del percorso che il suo beniamino sarà in grado di costruire nel futuro, crede nella sua bravura, lo sostiene e lo indirizza, lo ama e lo difende (senza per forza sconfinare nel fanatismo). E che al tempo di internet lo fa usando tutte le potenzialità del mezzo. Ma allora torniamo all’inizio: se c’è già il romanzo, se chi infine lo pubblicherà li ha già letti tutti e molto probabilmente avrà persino già individuato il vincitore, che razza di talent è? Che cosa conta il pubblico? Niente: è semplice, passivo spettatore. Televisione 1.o. Lo dimostra, fra le altre cose, il fatto che per sapere come si svolgerà la competizione, lo spettatore debba ricavarsi pezzi d’informazione a spizzichi e bocconi sui giornali. La prima puntata avrebbe dovuto essere anche quella in cui si coinvolge il pubblico sullo svolgimento futuro, sulla formula della competizione. E invece no. Lo show è già off, i giochi sono fatti, con tutta probabilità il romanzo vincitore sarà in libreria già il lunedì dopo la fine del programma. Tanto rumore per una fascetta?
Tags: Andrea De Carlo, Fremantle Media, Giancarlo De Cataldo, Masterpiece, Rai3, Taiye Selasi, talent show, X Factor
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Commenti (2)
Renato Bruno
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Ma perché mai vi dà tanto fastidio qualcuno che sale in cattedra e dice a chiare lettere, alla massa degli esordienti che si autoproclamano “scrittori” , bello mio, datti all’ippica perché come scrittore sei un fallimento? Che cosa ci trovate di così censurabile in questo comportamento? E poi, da quando il pubblico si erge a giudice di ciò che si dovrà o non si dovrà pubblicare? Si tratta di un programma televisivo finalizzato ai criteri editoriali scelti dalla Bompiani per pubblicare i libri. E allora? Dov’è lo scandalo? Io trovo encomiabile, in una nazione dove nessuno legge e tutti scrivono, una trasmissione che stabilisca e ribadisca rigidi criteri di selezione -condizionati, spettacolarizzati, finalizzati, partigiani- atti a far piazza pulita dei mille luoghi comuni e delle falsità aberranti che stanno dentro la testa degli esordienti e che ne condizionano pesantemente l’insuccesso. I libri si leggono alla radio non in TV, perché in Tv vince non chi scrive meglio “secondo me” ma chi meglio degli altri sa immedesimarsi e vivere il suo ruolo di scrittore. Bravissimi i conduttori, manichei, spietati, saccenti, spocchiosi, antipatici, venduti felicemente al format, ma i loro criteri insopportabili di lettura e di censura mi auguro davvero che servano almeno a far capire a 10, 100, 1000 esordienti che cosa non va e non funziona nel loro presunto capolavoro nel cassetto. Amazon è l’anonimato non la notorietà e sulla professionalità e sensibilità letteraria di Elisabetta Sgarbi – si vede che non la conoscete- non scherzerei affatto: magari ci fosse un esordiente capace di scrivere come l’autore più becero e più commerciale pubblicato da Bompiani: come editor in cerca di talenti farei salti di gioia! Le vostre critiche al programma sono ampiamente condivisibili ma non lo sono le vostre premesse ideologiche: perché mai dovrebbe essere “secondo voi”? Voi sapete benissimo che il talento narrativo -se c’è- non va in Tv e che la ritrosia della parola, letterariamente valida e di qualità, non partecipa a nessuna fiera della vanità. Non è che per caso le ore da voi passate davanti alla Tv hanno mediatizzato il vostro pensiero e defilippizzato la mente? Grazie per l’ascolto e cordialissimi saluti. Renato Bruno
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Redazione
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Caro Renato, a quanto sembra stai estremizzando il nostro articolo e riempiendolo di fin troppi contenuti. Il nostro punto fondamentale è molto più semplice. Ben vengano i programmi televisivi su come si seleziona un libro per pubblicarlo o come si dice a chi non ha talento che non lo ha, ma non chiamate talent show ciò che non lo è. Fine. Definirlo talent show è una furbata mediatica che genera aspettative di un certo tipo, fra cui quella di guardare una grande invenzione, l’hanno strombazzato un bel po’ il fatto che fosse “il primo talent show della letteratura”. Ma non è così: stiamo guardando la messinscena di un talent, non un vero talent. Il romanzo vincitore esiste già, non sappiamo qual è ma sappiamo che c’è. Come scriviamo nel pezzo, è probabile che addirittura esca il giorno dopo la fine del programma. Questo non ci piace e abbiamo criticato: che si stia spacciando il programma per ciò che non è. Non c’è originalità, non c’è onestà, ma solo l’intento di attaccarsi al carro di Masterchef e X Factor. Che per inciso, a nostro parere sono prodotti di ottima qualità televisiva.
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