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Isabella Zani: “Il rischio d’impresa lo paghi l’imprenditore, basta con i freelance che finanziano le perdite delle case editrici”

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Ecco la seconda parte della lettera indirizzata da Isabella Zani, traduttrice letteraria, al mondo editoriale italiano, che pubblichiamo con il permesso dell’autrice. La prima parte si trova qui.

(segue dalla prima parte) No, certo, non è la prima volta che mi succede: anzi, è solo l’ultima di una lunga serie. Gli editori italiani fanno quasi tutti così, procedono per arbitri grossolani e protervi. Contratti blindati, negoziabili solo in minima parte se non mai per nessun motivo, compensi decisamente inadeguati al lavoro – almeno al mio, la traduzione letteraria dall’inglese – nessun anticipo (il solo accenno strappa risate) ma soprattutto termini di pagamento da lunghi a lunghissimi, e che quasi mai vengono rispettati. L’editoria italiana di traduzioni, molto semplicemente, si finanzia con i compensi dei collaboratori free-lance. Si assume il cosiddetto rischio d’impresa in modo, diciamo, bizzarro: se il rischio genera guadagni, l’impresa editoriale non li divide con nessuno fra quanti hanno contribuito a confezionare prodotto di successo; ma se il rischio è causa di perdite, l’impresa editoriale lo scarica sui collaboratori come me. Perché tanto quasi nessuno «fa causa», il recupero crediti è costoso, i tempi giudiziari sono quelli che sono… ma soprattutto perché nessuno vuole passare da piantagrane. Infatti il lavoro di traduzione è tanto, ma gli incarichi di traduzione editoriale pagati sopra il limite della decenza, per committenti seri e affidabili, su libri che valgano la fatica di mesi di lavoro scrupoloso e senza cedimenti, sono pochi. (C’è abbondanza di sfruttamento, fra tutte le imprese che si servono di traduzioni a qualunque titolo, non solo quelle editoriali, ma non c’è abbondanza di lavoro dignitoso e dignitosamente compensato.)

Dico queste cose proprio a lei – ma ripeto, se potessi vorrei dirle al Presidente della vostra casa editrice – per due motivi.  

Il primo riguarda voi: le occasioni di collaborazione avute in passato erano andate sempre bene, e perciò mi fidavo. Prima delle trattative, prima dei contratti, prima di tutto io mi fidavo del vostro nome e della vostra reputazione. Pensavo di avere a che fare con delle persone per bene. Oggi so che non sono l’unica in questa situazione, che altri colleghi come me attendono il dovuto e non hanno risposta, e se qualcuno dovesse chiederci dei vostri comportamenti, della vostra affidabilità, né io né loro potremmo dire che le cose stanno diversamente da come stanno: voi avete dei problemi, e trattenete i nostri soldi. Quelli che ci dovete secondo i patti. E chi infrange i patti, chi non rispetta gli accordi perché può prevalere senza conseguenze, non è una persona per bene. Siete sicuri che tappare le falle nei conti correnti dell’Azienda sia più importante che mantenere la vostra reputazione, anche di committenti rispettosi? Che non ci sia un modo più degno, di tappare queste falle, che incrinare o distruggere la fiducia che un bravo collaboratore ripone in voi? L’editoria è un mondo piccolo, e i vostri concorrenti seminavano già mesi addietro il dubbio che voi non foste «più gli stessi», ma né io né altri ci abbiamo dato peso. E se anche l’avessimo fatto? Non siamo gente che può permettersi troppi distinguo: siamo cottimisti che devono produrre cartelle, meglio che possono nel tempo che hanno.

Il secondo motivo invece riguarda me, che sono stanca. Faccio questo lavoro da dieci anni, credo di farlo bene almeno in termini di scrupolo e di impegno, ho avuto modo di imparare molto, continuo a farlo e tra cinque anni sarò più brava di adesso, che sono più brava di cinque anni fa; vorrei anche costare di più, fra cinque anni, malgrado ora non costi più di cinque anni fa. Ma sono stanca di tenermi tutte queste cose per me. Sono stanca di non far altro che sforzarmi di migliorare, solo per rendermi conto che il mio lavoro non merita nemmeno di venire pagato puntualmente. Ho diritto a ricevere il dovuto quando si è pattuito che lo riceverò: non prima, ma nemmeno dopo, dopo ancora, chissà quando. Il rischio d’impresa lo paghi l’imprenditore: io ho solo firmato un contratto in cui mi impegnavo a fornire una certa prestazione professionale entro una tal data, in cambio di una somma di denaro da corrispondersi alla talaltra data. Non sono socia dell’impresa. Non partecipo degli utili, e mi rifiuto di finanziarne le perdite.

E se invece la vostra posizione è che questo risultato non si può ottenere, se le cose non possono cambiare e semmai peggioreranno, se un editore potrà continuare a decidere in sprezzo degli impegni presi chi verrà pagato e chi no, e quando sì e quando no, allora, per favore, almeno smettiamola con la farsa dei contratti da compilare, spedire, controfirmare, rispedire… mettiamo fine a questo spreco di cellulosa. Perché un contratto che una parte può decidere di non rispettare è carta straccia. E allora, almeno, data l’inevitabilità del danno, risparmiateci almeno le beffe.

Grazie della pazienza, cordialmente 

Isabella Zani

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Lettera a un redattore da una traduttrice letteraria: “L’editoria italiana di traduzioni si finanzia con i compensi dei collaboratori free-lance”, di Isabella Zani

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Pubblichiamo, con il permesso dell’autrice, una lettera rivolta da Isabella Zani, traduttrice letteraria dall’inglese, al mondo editoriale italiano. Nella lunga lettera si rivolgono critiche taglienti al sistema di gestione delle collaborazioni freelance da parte dell’editoria italiana. La pubblichiamo in due parti:

“Caro Redattore

la spero bene, e la avverto che non sarò breve.

Scrivo di nuovo a lei perché non ho indirizzi e-mail affidabili per la presidenza della sua Casa Editrice, reale destinataria di questo messaggio; ma in ogni caso perché fu lei a telefonarmi diversi giorni fa, per riferirmi che il pagamento dovuto per la traduzione consegnata il 10 maggio – pagamento che attendevo alla fine di luglio (fidando sul consueto termine di sessanta giorni «fine mese») ma che, trascorsi inutilmente lo stesso mese di luglio e poi il mese di agosto, mi era stato annunciato per la fine di agosto con «valuta ai primi di settembre» – era stato nuovamente rimandato alla fine di settembre (120 giorni fine mese dalla consegna, tanto per tenere i conti). Annuncio che peraltro poggiava solo sulla sua e mia buona fede, perché i documenti ufficiali in questi casi (ordini di bonifico, matrici di assegni, chissà) rimangono sempre misteriosi.

Lei ascoltò quanto avevo da dire in merito a questo comportamento da parte dell’Azienda per cui lei lavora; affermò che mi avrebbe compresa se in futuro non avessi più accettato di lavorare per voi (ma io ho bisogno di più lavoro, non meno); si disse concorde con le mie opinioni ma impotente a cambiare la situazione, e mi salutò esprimendo la speranza di potermi richiamare presto con notizie confortanti, cosa che a distanza di oltre una settimana non è accaduta. Ma in effetti sono abbastanza certa che lei per primo non credesse al suo auspicio, come non vi credetti io: perché siamo adulti e professionisti che, sebbene con mansioni diverse, dipendono da un editore di libri per il proprio sostentamento, e sappiamo ormai anche troppo bene che l’editoria libraria è un’industria governata dall’arbitrio, quando non dal vero e proprio capriccio.

Come definire altrimenti che arbitraria la decisione improvvisa – e che non mi sarebbe stata comunicata a meno di numerosi e umilianti solleciti – da parte della vostra presidenza di sospendere i pagamenti ai collaboratori, malgrado i contratti firmati, malgrado l’esecuzione e la consegna puntuale del lavoro, malgrado i patti? Le ragioni, ovviamente, non sono difficili da immaginare. I libri sono oggetti amatissimi che però non rendono molto; forse già da quando esistono, ma in questi ultimi tempi di sconquassi finanziari ed economici meno che mai, ed evidentemente il primo semestre di quest’anno per l’editoria nazionale è stato davvero il «bagno di sangue» che si sente menzionare qua e là. Quindi le casse sono vuote, i conti non tornano, e allora che cosa si fa? Si aspetta a pagare i traduttori (e magari i revisori esterni, i grafici, chissà quanti altri collaboratori dotati di potere contrattuale e strumenti di rivalsa scarsi o nulli). E quanto si aspetta? Un mese, due, tre, in realtà nessuno può dirlo perché la decisione è in mano a un gruppo ristretto o perfino a una sola persona, che può rimandare il saldo del dovuto a proprio piacimento senza nemmeno sentirsi in dovere di avvisare se non è il creditore a chiedere notizie, chiedere notizie, chiedere notizie, a scapito del propro tempo e della propria serenità. Pagheremo quando potremo.

Ogni tanto mi diverto a immaginare che cosa succederebbe se, a contratto firmato e magari diverse settimane dopo l’assegnazione del lavoro, a una richiesta di informazioni sulla consegna di una traduzione rispondessi «Cosa vuole che le dica, consegnerò quando potrò. Ora non è possibile». Potrei strappare un sorriso incredulo oppure ottenere una reazione sdegnata, vedermi agitare davanti agli occhi lo spettro della rescissione del contratto e negare il compenso pattuito. Insomma è probabile che mi ritroverei senza i soldi. Vale a dire, il medesimo risultato che ottengo adesso lavorando con diligenza e rispettando gli impegni: infatti sono passati quattro mesi da che ho fatto la mia parte, e mi ritrovo senza i soldi, e non so quando li avrò.

(qui la seconda parte)