Aria di rivolta contro Amazon negli Stati Uniti, da parte di numerosi scrittori che si sono visti cancellare decine e decine di recensioni sia verso i loro libri, sia scritte da loro sui libri di qualcun altro. Nei giorni scorsi Amazon ha infatti cancellato numerose recensioni affermando che “non sono consentite recensioni da parte di persone o aziende con un interesse economico nel prodotto o sue concorrenti, inclusi autori, artisti, editori, produttori, o venditori terzi.” Se hai scritto un libro, insomma, non ne puoi recensire altri, non importa che tu sia un lettore accanito, né magari che il tuo libro parli di trattori elettrici e quello che recensisci tratti la storia della Seconda Guerra Mondiale. La scelta di Amazon, motivata con una email automatica uguale per tutti nella quale si afferma chiaramente che “non potremo fornire ulteriori spiegazioni” oltre a mettervi di fronte al fatto compiuto, ha scatenato le ire di tanti autori, i cui libri sono improvvisamente calati di rating proprio a causa della cancellazione di tante recensioni magari scritte da altri autori o addetti ai lavori. L’autore di crime-fiction Steve Weddle è stato uno dei primi a denunciare l’accaduto, e a lui si è unito il collega J. A. Konrath, che sull’Huffington Post ha pubblicato un’aspra lettera polemica confronti di Amazon in cui si denuncia il danno subito da decine di autori a causa di tale normativa.
La “peer review“, dunque, ovvero il giudizio fra colleghi, quel criterio così osannato in campo accademico, per Amazon è sinonimo di concorrenza scorretta, partendo dal presupposto, decisamente hobbesiano, che non si tratti di colleghi, bensì di semplici concorrenti interessati ad azzannarsi l’un l’altro. Davvero è così? Com’è noto, le recensioni su Amazon sono finite nell’occhio del ciclone mesi fa per via del “caso Ellory”: lo scrittore crime inglese R.J. Ellory smascherato dal quotidiano Daily Mail nella sua attività di entusiastico recensore di se stesso sotto il falso nome di Nicodemus Jones (aveva commentato una delle sue opere definendola “un capolavoro moderno”), e di detrattore delle opere altrui. Ellory, autore noto anche in Italia dov’è pubblicato da Giano Editore, ha rapidamente ammesso le sue colpe; tuttavia la confessione non è bastata a placare le ire di altri autori suoi colleghi. 400 autori (la maggior parte “crime writer” come Ellory), tra cui anche nomi arci-noti come Michael Connelly hanno infatti firmato la petizione “No sock puppets” (i “sockpuppet” in inglese sono gli account internet di copertura, usati per nascondere la propria vera identità). Ma gli stessi firmatari della petizione sono finiti nel mirino delle critiche di vari autori, tra cui il J.A. Konrath di cui sopra, accusati di “aver voluto ammazzare un topolino con una bomba nucleare” creando una lista dei buoni e dei cattivi per considerarsi migliori di altri. Gli scrittori americani sembrano dunque divisi tra chi sostiene in ogni caso la ‘peer review’, andando incontro al rischio di imbrogli che sono comunque una percentuale minima rispetto al mare magnum delle recensioni, e chi invece ritiene che andrebbe meglio (auto-)regolamentata. La soluzione che ha trovato Amazon alla regolamentazione lascia comunque aperti molti dubbi: come si fa a capire quando l’autore della recensione è un “competitor”? Se uno è appena un po’ bravo a camuffare la sua identità, il rischio è che questo tipo di misure penalizzino solo chi si firma in trasparenza, e non torcano un capello ai veri imbroglioni.
E noi? Come guardare a tutto questo dall’Italia? Dal paese in cui le recensioni sono affare di intellettuali, in cui le ‘fake review‘ sono le recensioni di libri di cui non si è letto u rigo scritte direttamente dai giornalisti firmandole con nome e cognome nella gaiezza generale? Ci sono autori che in Italia usano Amazon o altri siti per recensire opere di altri autori? Ma prima ancora: ci sono autori che in Italia leggono altri autori? E quanti sono? Gli Stati Uniti (o il Regno Unito) visti da qui, appaiono una realtà in cui il dibattito attorno ai libri, fake o non fake, è vivo, caldo e, in un certo modo, orizzontale. L’Italia è un paese in cui il dibattito attorno ai libri è relegato ai salotti dei soliti noti, tutti amici e tutti ‘stimati’, che sia dal vivo o su Twitter. Una questione “per il mio ufficio stampa” con prosecco in mano, insomma. Anche per questo continuiamo a chiederci: serve davvero a qualcosa fare paragoni con gli USA per immaginare il futuro del mercato librario italiano?